Letteratura

A cosa serve la letteratura? di Mario Barenghi | Doppiozero

Secondo me, la domanda “Cos’è la letteratura?” o “Cos’è un testo letterario?” come faceva Giovanni Bottiroli (Letteratura: quando si comincia davvero a studiarlo?) non è il modo più appropriato per affrontare il problema dell’insegnamento delle lettere all’università, figuriamoci a scuola. La domanda da porsi non deve essere ontologica ma funzionale. Dobbiamo chiederci lo scopo della letteratura, qualunque essa sia: la sua ragion d’essere. Cosa serve? Per cosa lo usiamo? Per qualsiasi motivo? E rispetto a quali obiettivi o benefici? Per dare una definizione molto generale, prenderei in prestito la formula usata dal linguista israeliano Daniel Dor per definire il linguaggio (The Instruction of Imagination. Language as a Social Communication Technology, Oxford UP 2015).

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La letteratura è una tecnica di “insegnamento dell’immaginazione” che non è serve la mera “comunicazione”, ma permette a esperienze simulate di prendere vita. Attraverso una pratica di simulazione socialmente condivisa (quindi distinta dalla rêverie individuale), il lettore ha l’opportunità di ampliare la sua intera esperienza esistenziale: chiarirla e arricchirla, articolarla ed espanderla, e acquisire così nuovi strumenti per esplorare il fronte reale -sfide della vita. .

Si potrebbe formulare questa idea in un modo moralmente più impegnativo. Lo scopo delle opere letterarie dovrebbe essere quello di aiutarci a vivere. Servono la vita: questo il titolo di un saggio intelligente di Bruno Falcetto (sottotitolo Verso un’educazione all’uso della letteratura), pubblicato nell’antologia Le lezioni di letteratura nella scuola delle abilità (Kr. G. Langella, Pisa, ETS 2014 ). Vivere o sopravvivere o darci una vita migliore, come scrisse Tzvetan Todorov nel suo libro del 2007 La littérature en péril (Letteratura in pericolo, Garzanti) e come affermò Antoine Compagnon nel suo discorso al Collège de France dello stesso anno, La littérature, pour quoi faire? (disponibile come file liberamente accessibile in questa pagina) la letteratura serve a renderci più felici. O meno infelice. E per renderci migliori: più intelligenti, più intelligenti, più sensibili, più lungimiranti (qui Compagnon cita un celebre passo del saggio di Calvino Il marollo del leone); generalmente meglio attrezzati per interpretare il mondo che ci circonda, in primo luogo il mondo umano. Di conseguenza, sono meglio integrati nel nostro ambiente: in grado di comprendere meglio coloro che ci circondano, le loro azioni e atteggiamenti, e le dinamiche delle relazioni che ci legano a loro; più pronti a comprendere il significato e il peso delle parole, nostre e altrui.

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Ma attenzione: la letteratura non produce questi effetti automaticamente. In effetti, potrebbe non produrli affatto. Non solo e non tanto perché c’è cattiva letteratura accanto alla grande letteratura: ma soprattutto perché (ci insegna il caso dei testi sacri) non c’è buon libro che non si possa abusare: così come non ci sono strumenti (strumenti, attrezzature, abilità o conoscenza) che anche gli “stupidi” ei “banditi” non hanno bisogno di riprendere due categorie della Cipolla di Allegro, ma non troppo (Le leggi fondamentali della stupidità umana, Il Mulino 1988). Forse possiamo consolarci con il fatto che è vero anche il contrario: anche un libro mediocre può essere usato positivamente. Il fatto è che l’insegnamento della letteratura dovrebbe perseguire questo obiettivo: aumentare la probabilità che nell’esperienza letteraria degli studenti gli effetti considerati benefici, desiderabili, desiderabili prevalgano su quelli considerati negativi.

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Illustrazione di Roger Olmos.

Ora, l’esperienza letteraria si basa su due processi fondamentali: la personificazione e la partecipazione. A prima vista, il primo sembra riguardare il lato produttivo del testo (l’autore), il secondo il lato della ricezione (il lettore). In realtà, entrambi sono sempre messi in gioco, poiché l’autore vuole coinvolgere il lettore proprio attraverso la personificazione, mentre il lettore può riconoscere anche intenzioni personali o forme di personalizzazione del discorso che vanno al di là delle intenzioni consapevoli del produttore del testo. Ma questi sono dettagli teorici; il punto principale è diverso. Di cosa parla la letteratura? Di tutto, ovviamente. La letteratura può rappresentare tutto. Non un qualsiasi aspetto della vita reale, ma una realtà ipotetica, fittizia, immaginaria, controfattuale. Il suo marchio di fabbrica finge di essere umano. Possono essere figure umane nel vero senso della parola, magari a tondo, come accade negli spettacoli teatrali o nei romanzi, dove si parla di “figure”, dramatis personae, o nell’opera, che mette in scena esplicitamente un “io”: ma sì, è può anche essere affrontato in modo più sottile con una disposizione del discorso sufficientemente personalizzata da evocare una presenza umana, come è il caso anche nei poemi più astratti o didattici, nelle descrizioni più impassibili, nella saggistica. La distinzione è sempre un presupposto di concretezza: qualunque cosa dica il testo, qualunque sia il tema che propone o l’argomento che sviluppa, è incorporato, incarnato, personificato, attuale.

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La personificazione può intraprendere diversi percorsi: offrire informazioni personali esplicite, complete di nome, cognome, data di nascita, ceppo familiare e così via; o per evocare una silhouette umana in modo elusivo, e spesso tanto più suggestivo proprio per questo; o anche umanizzare entità non umane (poteri o creature); o anche solo diffondendo il testo con impronte e tracce, increspando la superficie verbale con accenti sufficientemente marcati e riconoscibili da stimolare il riferimento a una particolare personalità.

“Speciale” è un termine chiave. Si consideri l’affermazione tertium non datur. Per una nozione così astratta, la letteratura offre esempi che contengono sempre qualcosa di meno (che non possiamo fare senza logica) e qualcosa di più (per cui vale la pena leggere storie). Saltare o non saltare, il dilemma di Lord Jim; cedere alla suggestione del bene o del no, l’alternativa che don Abbondio rifiuta a priori, senza capire cosa significhi. Qui siamo nel regno dell’individuo concreto. Ma anche quando si incontrano affermazioni generali in un’opera letteraria, è la totalità delle circostanze particolari che esercitano una pressione osmotica sull’esperienza del lettore. D’altra parte, se siamo permeabili a casi isolati, è perché la vita ci viene incontro proprio come sequenza (o complesso) di casi isolati.

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Tuttavia, affinché il processo abbia luogo, affinché la letteratura funzioni in quanto tale, il lettore deve sentirsi coinvolto. Deve essere interessato, il che significa che deve letteralmente fingere di essere nel mezzo (inter + esse). Deve sentirsi attratto, se non rapito, almeno, cioè interrogato, interrogato. Il meccanismo è quello della proverbiale massima oratica: mutato nomine, de te fabula narratur (Sat. I, 1, 69-70) Non c’è esperienza letteraria senza un certo grado di identificazione. Inoltre, sarebbe sbagliato appiattire l’idea di identificazione con la dimensione emotiva e sentimentale, in particolare sulla ricerca dell’identificazione empatica con personaggi di fantasia. C’è sempre una qualche forma di empatia, ma può anche influenzare l’atteggiamento problematico o umoristico o polemico che prende forma nel discorso. Chi parla – chiunque sia – lo incarna, lo incarna. La discriminazione è sempre un tipo particolare di fisicità, la materialità (sebbene virtuale) di una presenza personale.

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Consideriamo ora la questione della dottrina un po’ più da vicino. Si può insegnare la letteratura? Qui ha ragione Bottiroli: “Quello che può fare un insegnante di lettere è creare le condizioni perché un’esperienza estetica sia possibile. Non può imporli, ma può incoraggiarli». E ha anche ragione quando dice che non devono esserci ostacoli. Più drasticamente, direi, evitare danni: primum non nocere, è il monito d’oro della scuola salernitana. Lo seguo meno, invece, quando contrasta l’attenzione per i “testi” e l’attenzione per i “contesti” e denuncia le conseguenze dannose del “contestualismo” (“il contestualismo uccide la letteratura”). Certo, trattare un testo come un mero documento di qualcos’altro significa ridurlo a supporto di considerazioni storiche, psicologiche, sociali, “culturali”, soffocarlo. Tuttavia, non meno grave danno è stato causato – per quanto ne so, soprattutto a scuola – dall’uso improprio di termini e griglie sviluppate dalla teoria letteraria. Non leggi un romanzo per imparare cosa significano le parole “prolasso” o “analessia”.

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Ciò che uccide la letteratura, secondo me, è l’indifferenza verso i lettori. Non distinguerei tanto tra “manufatto” e “oggetto virtuale” (il termine usa Bottiroli per indicare “l’insieme delle interpretazioni possibili”), ma tra “testo” e “opera”, dove l’opera è il testo concretamente riattivato attraverso la lettura è: eseguita – nel senso musicale della parola – da un lettore o da una comunità di lettori. Lo cita più volte Franco Brioschi, anche nella prefazione a L’ambiente circostante. Primo e secondo corso di Vittorio Sereni (Il Saggiatore 2013) – l’epigramma riportato da Possidio al termine della sua biografia di sant’Agostino. L’intenzione del poeta latino era di celebrare la funzione eterna della poesia, ma questi due versi ben si prestano a rappresentare la riattivazione del testo da parte del lettore: Vivere post obitum vatem vis nosse, viator? Quod legis, loquore d’eccezione; vox tua nempe mea est (“Vuoi sapere, viaggiatore, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, e qui parlo: la tua voce è mia”). La poesia vive, sì letteralmente vive nella lettura. Se la letteratura è ora vista come una simulazione dell’esperienza, non possiamo trascurare il fatto che tutta l’esperienza è contestuale. In altre parole, chi insegna insegna sempre a qualcun altro: e ciascuna delle materie coinvolte porta con sé un insieme di contesti che non possono essere ignorati (anche se bisogna, ovviamente, stare attenti alle deviazioni impressionistiche).

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Dimostrare che un testo letterario è aperto a molte interpretazioni o è stato letto in molti toni diversi è istruttivo ma non cambia nulla, almeno finché non attiva qualche forma di identificazione che attiva la volontà partecipativa, cioè non è stata lesa l’indifferenza del destinatario. Il punto è che da questo testo dovrebbe venire fuori qualcosa di importante per chi lo legge, qui e ora. Cosa, ovviamente, impossibile dire a priori (in fondo è il bello della letteratura).

Da questo punto di vista, condivido pienamente l’insistenza di Nadia Fusini sul ruolo del lettore (lettura ad orecchio). Il centro dell’esperienza letteraria è la lettura: da qui l’esigenza di usare “scuola, università, critica ed estetica” nel senso di “educazione alla lettura”. Avrei però una riserva marginale sulla svalutazione della lettura “elusione”. Offrire l’opportunità di fuggire da un presente che è frustrante, opprimente o doloroso non è cosa da poco: e oltre al ristoro momentaneo, le esperienze estetiche “effimere” possono anche produrre effetti collaterali molto più coerenti e meno fugaci di quanto sospettiamo. . D’altra parte, chi legge con l’intento “serio” di capire come funziona il mondo può benissimo sbagliare e incontrare malintesi. Molto peggio dei lettori ingenui o disinteressati sono i lettori superficiali e prepotenti che sono solo in grado di confermare le convinzioni acquisite in precedenza.

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L’immagine di un buon lettore si trova nelle parole del romanziere Silas Flannery, alter ego di Calvin in Quando una notte d’inverno è un viaggiatore: “Mi aspetto che i lettori trovino qualcosa in i miei libri leggono ciò che non sapevo, ma posso aspettarlo solo da chi si aspetta di leggere ciò che non sapeva. ‘

Sto chiudendo. Nell’università del passato era forse evidente una diffusa familiarità con l’esperienza letteraria. Almeno nella facoltà filosofica, l’interesse degli studenti per la letteratura era saldamente radicato: se non per tutti gli autori del nostro canone storico-letterario, allora per molti classici moderni. Non so se queste circostanze si ripetono oggi in un’isola privilegiata dell’arcipelago accademico. Personalmente tengo corsi in cui la letteratura non è al primo posto nella mente degli studenti, quindi non posso fare a meno di affrontare il problema di interessarli nel senso sopra indicato. Mi sforzo di fare in modo che la lettura che propongo interagisca con la vostra coscienza – nel modo insito nella letteratura, ovviamente. So benissimo che non posso farlo con tutti, e temo di non farlo nemmeno con la maggior parte; Spero di avere successo con almeno qualcuno. Tuttavia, cerco di aspettarmi che tutti apprezzino la densità del testo letterario, l’importanza dell’uso delle parole, la complessità della costruzione del discorso e l’importanza delle questioni affrontate. Questo non sarà sufficiente per ottenere una vera esperienza estetica; ma se nel frattempo riesco a non suscitare indebito disgusto, antipatia per la letteratura in generale, forse può essere utile come premessa o piattaforma per future esperienze. Non molto, ma meglio di niente.

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